Cinzia Leone: la malattia non è un intruso!
Cinzia Leone, attraverso la sua storia di rinascita ci dona una chiave di lettura diversa rispetto a come, socialmente e culturalmente, siamo abituati a considerare la malattia.
Cinzia Leone, (Roma, 4 marzo 1959). Attrice, autrice teatrale e personaggio televisivo.
Nel 1991, al culmine della sua carriera artistica, è stata colpita da un aneurisma cerebrale congenito, e un conseguente ictus, che le hanno causato la paralisi della parte sinistra del corpo, recuperata, negli anni, con imperturbabile tenacia e continua ricerca e scoperta della malattia.
Indice
1 Il racconto della malattia
Fu il peggior aneurisma che potesse esserci, perché era posizionato proprio al centro del cervello, quindi era intoccabile e in Italia non c’era ancora la macchina per l’extracorporea.
Non mi immaginavo minimamente di avere una bomba a orologeria di questo tipo dentro di me. Era un momento, lavorativamente parlando, altissimo; avevo appena girato il film Parenti Serpenti (film uscito nel 1992 e diretto da Mario Monicelli, ndr.). Ero stanca, questo sì, però non immaginavo una cosa del genere.
Mi sentii male durante la prima del film Donne con le gonne (film del 1991 diretto da Francesco Nuti, ndr). Quella sera non volevo uscire — anche perché, nel contempo, stavo girando una serie per la Rai, quindi lavoravo ininterrottamente — così dissi a mia madre che non volevo andarci, ma lei mi rispose: «È il tuo lavoro, infilati un tailleur, prendi un tassì e vai!» e, del tutto casualmente, mi salvò la vita. Se fossi rimasta a casa, sarei morta da sola e nessuno se ne sarebbe accorto perché a quel punto sarebbe venuta meno la coscienza.
Dovetti andare negli Stati Uniti perché l’unico al mondo che non si rifiutò di operarmi fu Spetzler, quel genio della chirurgia neurologica (Robert F. Spetzler, ndr.), che mi disse: «Io la opero e la salvo».
Mia madre non guardò in faccia a nessuno, nonostante tutti le dicessero di farsene una ragione perché non sarei sopravvissuta, e mi caricò su un aereo di linea fino a Los Angeles, poi su un volo privato fino a Phoenix dove venni operata al Barrow Neurological Institute e salvata con un intervento che non lasciò alcun danno. L’emorragia, sì, qualche danno l’ha lasciato, ma ci sto ancora lavorando!
In questi anni ha sempre vissuto per guarire. Cos’è che l’ha aiutata in questo percorso?
Il motivo per cui sono guarita è stato il desiderio di riprendere il mio lavoro, che è in assoluto la cosa più importante della mia vita. Per me, fare l’attrice è un’urgenza. Quindi, il fatto che questo flusso si fosse interrotto è stato, ovviamente, dolorosissimo: un flusso meraviglioso, nel quale avevo fatto tutti gli step, cominciando con La TV delle ragazze (programma Rai, ndr), partecipando a tutte le edizioni di quella trasmissione (che sono state parecchie), poi il cinema e la consacrazione con Parenti Serpenti.
Dal momento esatto in cui Spetzler mi disse che, se volevo, potevo recuperare, non ho fatto altro che lavorare per riuscirci, ed è stato un viaggio interessantissimo, pazzesco, oserei dire. Ho cercato di rimettere insieme i pezzi, anche nel mio lavoro, per la mia realtà, e ho capito delle cose importantissime rispetto a questa malattia invalidante: c’è una perdita d’identità che lascia completamente smarriti e che spesso è il primo freno che non ti permette di reagire di fronte a un cambiamento simile.
Come si fa, in queste circostanze, ad accettare il cambiamento?
Non lo accetti, perché l’accettazione è una costruzione, non un punto di partenza. È impossibile da spiegare, fortunatamente, per chi non ha vissuto la perdita di sé stesso da vivo, perché di questo si tratta. Muore una parte di te e tu lo vedi, lo sai. E chiunque ti guardi penserà questo, perché gli altri non hanno la più pallida idea di che cosa stia succedendo dentro di te: la perdita di identità.
Esiste un problema culturale: noi siamo fobici del dolore, non consideriamo che la vita non è un pacchetto regalo sul comodino, ma è un viaggio in cui ci si può ferire, in cui si scoprono cose tostissime di sé stessi e della propria storia. Mentre cerchiamo di reagire, può succedere che si creino i presupposti per distruggere tutto, perché la paura più grande in quei momenti è quella di non valere niente. Per questo è necessario che ci sia un percorso psicologico di sostegno, capace di spingerti verso la considerazione della perdita d’identità.
Io mi sono salvata per averlo capito, perché ho cominciato a contestualizzare diversamente anche tutti gli abbandoni, tutte le persone che, inevitabilmente, mi voltavano le spalle e se ne andavano. A trent’anni è un dolore micidiale. Un attimo prima mi trovavo al massimo del successo e quello dopo mi ritrovavo a fare i conti con una disabilità, affaticandomi e impegnandomi per fare tutto ciò che c’era da fare, e che ho fatto, con tempi lunghissimi e frustrazioni bestiali, perché questa malattia richiede soprattutto una cosa: saper soffrire.
Inizialmente non seguii una fisioterapia specifica, ma un giorno mi venne in mente di farmi lanciare una pallina da tennis (con un braccio e una mano completamente paralizzati). La palla cadeva per terra e io piangevo, perché non riuscivo ad afferrarla. Dopo mesi ne presi una, e poi ne presi un’altra, e poi un’altra ancora...
Mentre, per mesi, guardavo piangendo la pallina che cadeva, il mio occhio si stava allenando al calcolo: era una stimolazione neurologica enorme, ma necessaria, perché se stimoli a lungo una parte che presenta difficoltà, quella parte comincia a reagire.
2 L'importanza del percorso psicologico
Se non avessi fatto l’attrice, avrei voluto fare la psichiatra. Con il mio lavoro ho portato tantissima comicità psicologica. Oggi la gente è schiacciata dalla spersonalizzazione di un sistema economico che, da oltre 20 anni, genera delle sacche di vuoto: questi “io” malandati che si aggirano inconsapevoli da tutte le parti, cercando disperatamente, ogni giorno, le prove del proprio valore.
È un sistema economico che dice a tutti: “O tu o un altro, per me è uguale!”, una frase atroce nella sua violenza. Hanno reso il mondo un ministero dove ci sono liste di nomi: ne cancelli uno per chiamarne subito un altro. Tutto questo avviene anche nei microcosmi familiari, di coppia, e diventa un potere verbale, che sputi in faccia anche agli altri quando ci litighi.
I giovani non sanno cosa vuol dire confrontarsi con qualcosa che porta a un limite, ma il limite glielo devono insegnare in casa, perché è ciò di cui abbiamo bisogno in questo mondo in cui veniamo abbandonati senza alcuna informazione.
C'è una sorta di disorientamento generale?
Disorientamento esistenziale direi. Nessuno sa come comportarsi e tende a fare quello che fanno gli altri per non sentirsi escluso. C’è una violenza di stratificazioni dove, per trovare il punto centrale di una persona, ci metti una vita intera.
Le persone non possono permettersi la complessità ed è il più grande gap che c’è in questo momento. La complessità è un fardello umano pesantissimo perché è la coscienza, la consapevolezza del percorso della vita.
Quello che manca è tornare a un dialogo introspettivo?
Proprio così, il dialogo introspettivo che è anche quel dialogo con la nostra salute.
A volte, ad avere più paura non sono le persone che si trovano ad affrontare delle difficoltà, ma chi si relaziona con loro. E questo è uno stigma della nostra società.
È uno stigma perché, culturalmente, i giovani non hanno esempi di persone in crisi davanti a loro. Questo accade perché nessuno ha più la forza di “stare in crisi”. Così, se arriva un dubbio, qualcosa che ci agita, non sappiamo contenere il disagio, anche il più banale, perché siamo abituati a una mentalità risolutiva, secondo la quale non deve mai esserci un inciampo. E invece, la vita è fatta di inciampi, ma bisogna sapersi rialzare.
La malattia è ancora un tabù. Come se lo spiega?
Esattamente! Culturalmente siamo ancora fermi al “certe cose non si dicono e certe cose non si fanno”.
Pensiamo all’uomo che mette in crisi il patriarcato proprio attraverso il femminicidio. Il femminicidio è un atto oltre al patriarcato perché chi ammazza la propria moglie davanti ai figli sta spettacolarizzando il suo dolore. Lo sta facendo vedere a tutti, e così facendo sta riconfermando il patriarcato. L’uomo vive dentro di sé un grandissimo conflitto (che è un risultato culturale) perché la condizione della donna è avanzata enormemente, mentre lui si ritrova sempre più solo di fronte alla sua angoscia di aver perso un ruolo di identificazione che è durato millenni.
3 La fisioterapia dopo l'ictus
Ho fatto tutti gli step che dovevo fare (e che faccio tutt’ora) al ginocchio della gamba sinistra, quella paralizzata. Fortunatamente ho le gambe lunghe uguali; ho fatto un tale lavoro di allungamento. Ho il contapassi e, ogni giorno, faccio 12 mila passi come minimo. Ho tre cani e la casa con il giardino.
Questa vita, questo movimento continuo, io lo genero: salgo, scendo, prendo i cani, li porto al parco, torno a casa, preparo da mangiare...oltre al mio allenamento settimanale con il mio fisioterapista.
Comincio le mie sessioni di allenamento con 500 addominali, altrimenti non potrei muovermi così velocemente, non avrei questa centralità. Ho fortificato la mia muscolatura fino all’inverosimile.
Studio ancora per fare la rotazione della camminata, per appoggiare il tallone e la punta, perché per me alzare la gamba sinistra è difficilissimo. Ho ripristinato un automatismo indotto e tutto questo lo racconto non per far sapere quanto sono brava, ma per far capire quanto, a volte, non lavoriamo abbastanza sulle cose che ci capitano nella vita.
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