A tu per tu con Maurizio Sacconi, già Ministro del Lavoro e Welfare
Lo stato del welfare in Italia e le prospettive per il futuro.
Il Rapporto Censis-Eudaimon publicato ad inizio 2018 dà una serie di indicazioni sulle prestazioni preferite dai lavoratori. Quelle relative alla sanità (indicate dal 53,8% degli occupati), alla previdenza integrativa (33,3%), poi i buoni pasto e la mensa aziendale (31,5%) la fanno da padrone.
Seguono il trasporto da casa al lavoro (ad esempio, l’abbonamento per i trasporti pubblici: 23,9%), buoni acquisto e convenzioni con negozi (21,3%), l’asilo nido, i centri vacanze, i rimborsi per le spese scolastiche dei figli (20,5%). Si parla inoltre di 21 miliardi di euro il valore potenziale complessivo delle prestazioni e dei servizi di welfare aziendale.
Marco Ceotto intervista Maurizio Sacconi, già Ministro del Lavoro e Welfare.
L'introduzione del welfare aziendale in Italia ha avuto una forte spinta sotto la sua gestione, viste le stime si poteva fare di più o è già un buon risultato?
Si poteva e si può fare molto di più perché dobbiamo avere l’ambizione di costruire un welfare integrativo che, pur su base volontaria o negoziale, si realizzi in termini tendenzialmente universalistici e comprenda a regime, per le prestazioni socio-assistenziali, l’intero arco di vita dalla culla alla tomba.
Dal suo punto di vista il welfare viene interpretato correttamente dalle aziende o meglio, quale dovrebbe essere il fine del welfare aziendale?
Considero nel welfare aziendale non solo le specifiche prestazioni fruibili dai dipendenti di una singola impresa o dai loro familiari ma anche quei fondi, destinati a conseguire una crescente massa critica, che sono interaziendali nel senso che, a seguito di contratti collettivi, vi partecipano in base alla loro valenza erga omnes tutte le aziende del settore. Altrimenti sono tenute a corrispondere al lavoratore una prestazione di analogo valore. Poi, l’azienda può lodevolmente decidere autonomamente o concordare con le rappresentanze interne altre prestazioni, anche ulteriormente integrative, rispetto a quelle dei fondi nazionali.
Oggi si può dire che sia conosciuto come strumento anche da parte dei lavoratori?
La diffusione dei benefit aziendali è stata favorita dalla norma che ha stabilito come le prestazioni sociali non concorrano a formare il reddito tassato del lavoratore. Quindi cento erogato e cento percepito. Tuttavia, il persistente errore di definire i salari attraverso i contratti nazionali fa sì che, a redditi nominali uguali, siano penalizzati i lavoratori delle aree in cui maggiore è il costo della vita. Per questo molti, soprattutto al nord, preferiscono ancora meno salario diretto rispetto a più welfare.
E da parte delle aziende?
Molta parte del nostro tessuto produttivo è fatta di piccole imprese che hanno bisogno di opportunità associative per poter erogare, a costi convenienti, prestazioni ulteriori rispetto a quelle dei fondi nazionali. Cresce comunque la consapevolezza per cui i lavoratori devono essere considerati dal datore di lavoro nella integralità dei loro bisogni e delle loro aspettative affinché siano motivati e fidelizzati.
Da alcune parti emergono critiche per l'eccesso di utilizzo di un welfare cosiddetto "ludico", ovvero incentrato su benefit di consumo. La vede come un tradimento delle finalità dello strumento?
Non direi. Sono molte le prestazioni che possono concorrere ad una vita buona. Certo, bisognerebbe in primo luogo garantire tutte le prestazioni che concorrono allo stato di salute del lavoratore quale bene primario.
Potrebbero essere messi in dubbio in questo caso i benefici fiscali introdotti dalle ultime Leggi di Bilancio?
Non credo e non me lo auguro. Lasciamo ora che il fenomeno si diffonda e poi si potrà valutare se modulare le regole.
Dal suo punto di vista l'azienda con il welfare potrà sostituire i piani di prevenzione che la sanità pubblica in questo ultimo periodo fa fatica a coprire?
Ogni anno circa dieci milioni di lavoratori sono sottoposti a sorveglianza sanitaria per obbligo di legge. Si tratta di una straordinaria opportunità per la politica prevenzionistica nazionale se si convincono le aziende ad utilizzare i medici competenti oltre gli adempimenti formali per promuovere tra i dipendenti le attività di screening, l’educazione ai buoni stili di vita, la prevenzione delle malattie croniche. Questa sarebbe vera responsabilità sociale!
Il welfare aziendale è visto più come uno strumento di alleggerimento di eventuali tensioni o una forma di filantropia verso il dipendente/collaboratore?
Come ho già detto, la fine della seconda rivoluzione industriale, che aveva ridotto a numeri i lavoratori con le produzioni seriali, ha ridato un volto a ciascun collaboratore. L’azienda chiede a ciascuno il “saper essere” prima ancora del “saper fare” e perciò deve dare valore alla persona nella sua integralità.
Dal welfare oggi restano esclusi i dipendenti pubblici, oltre 3 milioni di lavoratori. E' una riforma possibile?
Assolutamente si. Lo dispone anche il protocollo tra governo e sindacati con il quale si è superato il blocco contrattuale. Anzi, dovrà essere il welfare il contenuto tipico dei prossimi contratti nazionali mentre gli incrementi retributivi dovranno essere determinati in base a scambi con obiettivi di efficienza nei singoli uffici o enti.
Il Veneto ha una struttura imprenditoriale medio piccola. Che futuro vede per il welfare in queste aziende?
Il Veneto ha una tradizione culturale che dovrebbe favorire le relazioni di lavoro come intenso incontro tra persone. Anche in passato, in modi assolutamente informali e forse paternalistici, il buon datore di lavoro era solito soccorrere i bisogni dei propri collaboratori. Ora vedo un robusto associazionismo territoriale delle imprese impegnato ad accompagnarle nella nuova dimensione, sempre più personalizzata, dei rapporti di lavoro.
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