L’intervento di protesi d’anca: come si svolge e quando farlo
L’impianto di una protesi d’anca è un intervento sempre più diffuso e che coinvolge pazienti sempre più giovani, ce ne parla il Dott. Davide Ranaldo, Chirurgo Ortopedico.
La degenerazione articolare dell’anca causata dall’invecchiamento e gli eventi traumatici come gli incidenti stradali spesso causano un insieme di stati dolorosi e limitazioni di movimento che portano, nel tempo, alla necessità di un intervento di protesizzazione.
Le nuove tecniche chirurgiche mininvasive, con il supporto della chirurgia robotica e con l’ausilio della realtà virtuale, lo hanno reso un intervento molto efficace e sicuro. Inoltre, i materiali di cui sono composte le protesi garantiscono stabilità e lunga durata nel tempo.
Indice
1 Le cause più comuni per l’intervento: l’artrosi
La coxartrosi è la degenerazione della cartilagine dell’articolazione dell’anca.
La sua distruzione porta all’esposizione dell’osso, con conseguente dolore e limitazione deambulatoria.
Questa patologia è generalmente associata all’invecchiamento, in quanto la cartilagine del nostro corpo, dopo i 55 anni, tende all’indebolimento e all’usura, causando la sintomatologia della coxartrosi.
Le cause della coxartrosi sono dovute a diversi fattori.
I principali sono:
- l’età
- la sedentarietà
- lesioni o traumi a danno dell’articolazione dell’anca
- l’obesità
Le modificazioni morfologiche sono tipicamente la formazione di osteofiti, sclerosi ossea, cisti ossee, sinovite, e alterazione dell’apparato legamentoso con una contrattura in extrarotazione.
Un paziente con coxartrosi riferisce tipicamente un esordio insidioso con dolore di durata variabile all’inguine e alla coscia, che talvolta può irradiarsi anche al gluteo; le manifestazioni associate comprendono una rigidità che limita:
- lo stare seduti
- la stazione eretta
- la deambulazione
- l’indossare calzini e scarpe
Questi sintomi sono di intensità variabile, normalmente peggiori al mattino presto e tendono ad essere più forti con la mobilizzazione.
I pazienti hanno di solito un’età superiore ai 55 anni anche se recentemente l’età tende ad abbassarsi per eccesso sportivo o gravi traumi stradali nei casi più giovani (il mio caso più giovane ha 36 anni) e possono avere in anamnesi uno specifico evento scatenante, una patologia dell’anca nell’infanzia, come:
- la displasia congenita dell’anca
- la malattia di Legg-Calvé-Perthes
- l’epifisiolisi prossimale del femore
- una storia di lavoro manuale pesante
- altre articolazioni affette da artrosi più o meno sintomatica
Un’alterazione in fase precoce della coxartrosi è la perdita della rotazione interna; la mobilizzazione dell’anca da parte dello specialista, inoltre, può causare dolore inguinale, suggerendo ulteriori approfondimenti diagnostici.
La progressione della malattia può far sviluppare nel paziente una contrattura in flessione dell’anca interessata e la conseguente obliquità della pelvi può portare ad un’effettiva dismetria degli arti con possibili anomalie durante la deambulazione.
La coxartrosi e l’impianto di protesi
Dopo l’anamnesi e l’esame obiettivo, il passaggio obbligatorio nella valutazione della coxartrosi è l’esame radiologico rigorosamente in ortostatismo (in piedi) del bacino per eseguire un confronto anche con l’altra anca, a volte anch’essa affetta.
In radiografia, un'articolazione artrosica appare:
- ipertrofica
- con osteofiti marginali
- con una dislocazione laterale del centro di rotazione
- con un restringimento focale dello spazio articolare superiore
Spesso è opportuno associare anche:
- le radiografie del tratto lombosacrale per discriminare altre cause potenziali di dolore lombare ed interessamento sacroiliaco associato; in molti casi lombalgia e coxalgia sono sintomi di due patologie concomitanti
- la risonanza magnetica per visualizzare la sofferenza ossea reattiva
- la TAC per lo studio di eventuali deficit ossei o di particolari forme del bacino che si rende necessario nella pianificazione pre-operatoria
- la scintigrafia ossea, utile per evidenziare alterazioni focali della pelvi e del femore
Il processo diagnostico ricopre, naturalmente, una grande importanza, soprattutto perché esistono molte patologie che possono dare disturbi simili.
In diagnosi differenziale entrano, infatti, diverse condizioni che possono richiedere trattamenti molto differenti, come:
- la lombalgia radicolare
- la borsite trocanterica
- l’osteonecrosi precoce
- corpi mobili intra-articolari
- lesioni del labbro acetabolare
- artrite della sacroiliaca
- tendinite dello psoas
- sindrome del piriforme
Infine, una volta confermata la diagnosi di coxartrosi, è necessario individuare lo stadio di degenerazione, per poter procedere con la terapia più adeguata. In genere si utilizza una classificazione e quella che uso più spesso è quella di Tönnis.
- grado 0: minima sclerosi sia della testa femorale che dell’acetabolo. Rima articolare normale.
- grado 1: presenza di sclerosi della testa femorale o dell’acetabolo. Minima riduzione dell’interlinea articolare e minima osteofitosi.
- grado 2: sclerosi e piccole cisti a livello acetabolare e femorale. Moderato restringimento dell’interlinea articolare. Deformità della testa femorale.
- grado 3: presenza di cisti più grandi a livello femorale e acetabolare. Importante restringimento o perdita completa dell’interlinea articolare. Grave deformità della testa femorale.
La protesi dell’anca, infine, offre miglioramenti consistenti e drastici del dolore, della rigidità e della qualità di vita dei pazienti.
È l’intervento risolutivo nei casi di coxartrosi avanzata; tuttavia, per potersi sottoporre a questo tipo di intervento occorre essere estremamente motivati.
Perché è necessaria questa affermazione? Perché il successo di un impianto di protesi d’anca passa anche e soprattutto dal paziente, che dopo l’intervento dovrà applicarsi costantemente con la terapia fisica per poter riottenere la funzionalità perduta. Un impianto, infatti, risulta poco efficace se il paziente nel post-operatorio tenderà alla sedentarietà, non riuscendo ad ottenere i risultati sperati anche con un lavoro chirurgico effettuato a regola d’arte.
2 L’evoluzione della protesi nel tempo
La protesi d’anca viene oggi considerata la soluzione definitiva al dolore e alla limitazione funzionale.
Grazie a numerosi chirurghi che hanno sperimentato e studiato diversi metodi e materiali, la protesi d’anca è diventata sempre più sicura e riproducibile, aumentando notevolmente la durata dell’impianto.
I primi tentativi di artroplastica dell’anca risalgono alla fine del 1800.
Come è facilmente intuibile, le pratiche che si sono susseguite sono state molteplici, ma di scarsa efficacia: veniva infatti utilizzato l’avorio o addirittura il vetro, per cui le protesi risultavano troppo fragili e non in grado di sopportare il peso del corpo umano.
Negli anni ‘30 del 1900 l’utilizzo dell’acciaio inox ha permesso di impiantare la prima protesi d’anca totale, che dimostrava tuttavia dei difetti, lasciando detriti metallici nell’articolazione.
Diversi studi hanno portato all’utilizzo della ceramica, che si è rivelata in grado di ridurre l’usura della protesi nel tempo in modo clinicamente trascurabile, vantando un significativo follow-up anche a distanza di decenni.
Le ulteriori innovazioni introdotte negli anni ‘90 hanno permesso alla protesi d’anca di ottenere notevoli risultati clinici, migliorando sia per quanto riguarda i materiali utilizzati, sia per quanto riguarda le tecniche di inserimento.
3 Quando è necessaria la protesi d’anca?
Con una diagnosi di coxartrosi, è lecito porsi la domanda: "quando sarà necessaria la protesi d’anca?”.
La risposta non è univoca, varia da caso a caso, ma vi sono alcune indicazioni che possono suggerire, sia al paziente che al chirurgo, il momento adeguato per procedere con un impianto.
Nella mia esperienza di chirurgo protesico in diversi centri italiani, ho valutato e operato numerosi casi: l’operazione, spesso, può non essere immediatamente necessaria e la patologia può essere controllata con terapie conservative mirate.
È di fondamentale importanza la diagnosi accurata in fase precoce della patologia, in quanto le strategie conservative possono prevenire o ritardare una degenerazione irreversibile.
Il trattamento conservativo
I trattamenti della coxartrosi, prima di considerare l’impianto della protesi d’anca, sono diversi, prevedendo:
- antinfiammatori (FANS)
- fisioterapia
- iniezioni di acido ialuronico
- medicina rigenerativa (PRP e cellule staminali)
Una diagnosi non solo accurata, ma anche precoce, permette di ritardare il più possibile la progressione della coxartrosi, di controllare il dolore, di mantenere la mobilità e la conseguente autonomia del paziente.
Il candidato ad una protesi, dunque, non risponde più positivamente ai trattamenti conservativi sopra elencati, manifestando continuamente dolore e serie difficoltà nella deambulazione.
La pianificazione dell’intervento
L’impianto di protesi d’anca è un vero e proprio percorso, che consta di tre passaggi fondamentali:
- la preparazione preoperatoria
- l’intervento
- la riabilitazione post-operatoria
La pianificazione preoperatoria è necessaria per ridurre al minimo le complicanze ed ottimizzare la ricostruzione dell’articolazione coxo-femorale.
- Viene effettuata con software appositi, basandosi sui risultati delle radiografie effettuate in diverse proiezioni
- A questo punto, l’operazione rappresenta a tutti gli effetti la parte intermedia del viaggio, in cui il paziente deve affidarsi completamente al chirurgo; la fiducia da parte del paziente e la massima dedizione ed impegno da parte dello specialista rappresentano gli elementi fondamentali
Immaginare l’intervento, eseguirlo mentalmente prima di farlo realmente è la chiave del successo di una sostituzione protesica di anca ma anche di ginocchio. In molti paesi è obbligatorio eseguire questa pianificazione prima dell’intervento, anche se in Italia non lo è nella mia pratica lo è diventato comunque ed è imprescindibile.
4 L’intervento e le tecniche chirurgiche
La protesi d’anca, come approfondiremo più avanti, è in parte una nuova articolazione e in parte deve rimanere la stessa, rispettando e mantenendo i tessuti molli del paziente.
Questo concetto è fondamentale nella ricerca della mini-invasività, che non vuol dire solo una ferita chirurgica più piccola, ma significa rispetto dei tessuti adiacenti, fondamentali nel processo di guarigione e per una corretta funzione della protesi.
Un approccio mini-invasivo non riguarda solo l’impianto in sé, ma è figlio di un processo, in cui ogni aspetto come:
- l’incisione
- il posizionamento dei divaricatori
- il processo di coagulazione
- la rimozione di eventuali osteofiti
- il mantenimento di osso senza essere troppo demolitivi
- l’inserimento della protesi
- la rimozione di detriti per evitare calcificazioni
- il controllo durante l’intervento della tensione dei tessuti molli
- la sutura ha un peso non trascurabile
Un altro aspetto fondamentale è la possibile necessità futura di un ulteriore intervento, in virtù del fatto che l’età media dei pazienti che si sottopongono all’impianto è diminuita e risulta, invece, aumentata l’aspettativa di vita.
Essere “chirurgicamente gentili” è, dunque, prima di tutto un dovere chirurgico, ma anche etico, necessario per garantire un’ottimale gestione della condizione del paziente nel futuro, accompagnandolo fino in fondo nel suo percorso di guarigione.
E’ possibile oggi avvalersi di strumenti tecnologici che ritengo, nella protesica di anca, degli ausili e non indispensabili per eseguire l’intervento, diversamente dal ginocchio.
Il Robot MAKO ad esempio o sistemi di navigazione come NAVISWISS e similari aiutano il chirurgo nel corretto posizionamento delle componenti ma non eseguono l’intervento né sono responsabili di minore invasività rispetto al gesto chirurgico manuale.
La durata e l'approccio chirurgico
La durata media di un intervento di protesi di anca è di 60 minuti che può aumentare o diminuire in funzione della difficoltà del caso, delle possibili complicanze intraoperatorie e per l’uso di sistemi di ausilio tecnologico.
Esistono almeno 3 tipi di approcci chirurgici per raggiungere l’articolazione dell’anca. Dipende poi dalla confidenza del chirurgo con ognuno di questi il “miglior modo” per eseguire una protesi di anca.
Personalmente nel 80% dei casi utilizzo una via denominata “anteriore” che non passa attraverso il motore della nostra anca, ovvero i muscoli glutei. Risparmiare dal trauma chirurgico questi gruppi muscolari ha numerosi vantaggi in termini di recupero, ma non è l’unico motivo:
- miglior visione della regione dell’acetabolo dove va impiantata la coppa
- minor sanguinamento e rischio di danno neurologico per l’assenza di vasi e nervi “fondamentali” rispetto alle altre strade
- minor rischio di lussazione
- meno rischio di infezione specie nei pazienti con importante massa grassa della regione glutea (il grasso è un ottimo terreno per i batteri)
- guarigione più rapida della cicatrice non sottoposta alla pressione del corpo durante le ore di riposo e notturne e la possibilità di eseguire l’intervento con incisione BIKINI in quelle donne che vogliono salvaguardare l’aspetto estetico
L’insieme di tutti questi elementi permette al paziente di poter raggiungere un obiettivo di recupero della stazione eretta nelle prime ore post operatorie, la deambulazione e la capacità di praticare le scale in circa 48 ore e la dimissione, salvo complicanze che sono sempre possibili nel mondo chirurgico, di essere dimessi in media a circa 3 gg dall’intervento.
Il post-operatorio
Il dolore post operatorio è assolutamente gestibile. Fortunatamente grazie a tecniche anestesiologiche sempre più sofisticate e alla gestione routinaria degli interventi il dolore nella protesica d’anca, rispetto a quella del ginocchio, è praticamente irrilevante. La percezione del gesto chirurgico resta, ma raramente il paziente ricorre a farmaci oltre i primi 3-4 giorni dall’intervento.
L’accesso chirurgico anteriore favorisce la guarigione della cicatrice in quanto non si ha pressione sulla stessa e in circa 2 settimane può considerarsi guarita. Andrà poi trattata per evitare fastidiose aderenze e inestetismi.
5 Possibili complicanze della chirurgia protesica d’anca
Il tasso di complicanze a seguito di protesi totale dell'anca è basso. Complicazioni gravi, quali l'infezione dell'anca, si verificano in meno dell’1% dei pazienti. Le principali complicazioni mediche, come infarto o ictus si verificano anche meno frequentemente. Le malattie croniche possono aumentare il rischio di complicanze. Anche se è raro, quando però si verificano, queste complicazioni possono prolungare o limitare il pieno recupero.
Parlate a fondo delle vostre preoccupazioni prima dell’intervento è importante per essere informati e non temere troppo questo tipo di intoppi.
L’insieme delle più frequenti complicanze nella nostra casistica risultano:
- Dismetria. È la differenza di lunghezza che può residuare tra i due arti inferiori al termine dell’intervento: può dipendere da fattori meccanici intraoperatori o da situazioni locali preesistenti relative alla patologia in oggetto (ad esempio nelle displasie dell’anca). A tale proposito va precisato che talvolta l’arto operato sarà intenzionalmente allungato durante l’intervento per stabilizzare l’articolazione o per migliorare la funzione muscolare. Non rappresenta comunque una complicanza grave, in quanto abitualmente risulta contenuta entro un centimetro circa. Inoltre l’uso di una corretta pianificazione riduce drasticamente questa complicanza. Chiedete sempre al vostro chirurgo di prepararsi all’intervento
- Lussazione (rischio inferiore all’1%). Rappresenta il disassemblaggio con separazione delle componenti protesiche. Risulta statisticamente più frequente nei primi due mesi successivi all’intervento e può essere direttamente provocato da errati atteggiamenti posturali e da incauti movimenti articolari. Nel determinismo di tale evento possono comunque essere in causa altri fattori quali l’ipotrofia muscolare, il tipo di patologia (più frequente nell’artrite reumatoide e nelle anche displasiche), l’orientamento delle componenti protesiche. In certi casi gli episodi di lussazione possono ripetersi nel tempo e rendere necessario il ricorso ad un reintervento
- Fratture intraoperatorie (rischio inferiore all’1%). Rappresenta una complicanza piuttosto rara, legata per lo più a fragilità del tessuto osseo femorale per cause osteoporotiche: possono rendere necessarie il ricorso a tempi chirurgici complementari (osteosintesi di vari tipi), l’impianto di protesi particolari (ad es. steli da revisione) e l’applicazione di un tutore di immobilizzazione pelvi-femorale nel periodo postoperatorio
- Infezione dell’artroprotesi (rischio intorno all’1%). Si può manifestare in forma acuta e precoce con febbre molto elevata, forte dolore all’anca operata che presenta secrezione della ferita e calore locale, oppure in maniera più subacuta e tardiva, con febbricola persistente, dolore locale ed eventuali fistolizzazioni cutanee secondarie. In tali casi la causa del processo può essere riconducibile ad estensione per via ematogena di processi infettivi a distanza (cistiti, infezioni odontogene, etc..) anche se molto spesso risulta difficile precisarne l’origine. L’infezione di un’artroprotesi è una complicanza molto importante ma che a volte può essere dominata con la ripresa della somministrazione di antibiotici per alcune settimane in dosi massicce. Se questo trattamento non ha esito positivo si può arrivare all'espianto della protesi con il posizionamento di uno spaziatore protesico temporaneo addizionato con antibiotici, e ad un eventuale ulteriore successivo intervento di reimpianto protesico
- Mobilizzazione asettica della protesi. È di solito una complicanza tardiva (diversi anni); con questo termine si intende un progressivo distacco delle componenti protesiche dall'osso non causato da infezioni, frequentemente legato a processi di usura dei materiali. Quando diviene di entità marcata può comportare il reimpianto di una nuova protesi
6 La fisioterapia e la ripresa delle attività
La terza e ultima parte del "viaggio" vede invece il paziente e il fisioterapista come assoluti protagonisti, con un impegno quotidiano per eseguire la riabilitazione post-operatoria, testando progressivamente la sua “nuova” articolazione.
Ho usato il termine “nuova” tra virgolette perché in realtà noi siamo in grado di sostituire solo l’ingranaggio dell’anca, con una protesi d’anca che deve entrare in sintonia con la vecchia articolazione.
L’anca però non è fatta solo da osso e cartilagine, ma anche dal complesso muscolo-tendineo, che deve essere salvaguardato e mantenuto, e soprattutto non perso in maniera drastica dal paziente prima dell’intervento. Difatti, buona norma sarebbe quella di eseguire della fisioterapia anche prima dell’intervento per guadagnare un po’ di terreno prima dell’intervento e rendere il percorso successivo più agevole.
Questo è un fattore importantissimo, in quanto la riabilitazione a seguito dell’impianto deve fare affidamento principalmente sui muscoli e i tendini, per creare una struttura di supporto stabile per la nuova articolazione.
Detto ciò, la salvaguardia delle strutture adiacenti risulta inefficace se il paziente non si applica adeguatamente nella fase di recupero: la riabilitazione post-operatoria, infatti, è l’ultimo tassello per riacquistare un’autonomia completa, ma deve essere seguita in modo egregio, corretto e soprattutto supervisionato da professionisti in grado di farlo: i fisioterapisti.
Davide Ranaldo
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